Omesse ritenute previdenziali sotto i 10.000 euro (quasi) depenalizzate

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Il Consiglio dei Ministri ha approvato ieri due schemi di decreto legislativo che riguardano la c.d. depenalizzazione. L’art. 2 della L. 67/2014 ha, infatti, conferito al Governo la delega per la “riforma della disciplina sanzionatoria” di alcuni reati.

Più precisamente, il comma 2 di tale articolo e la lettera b) del comma 3 contengono criteri e principi direttivi per la trasformazione di reati in illeciti amministrativi, mentre le restanti disposizioni del comma 3 contengono criteri e principi direttivi per l’abrogazione di alcuni reati con contestuale previsione, per i fatti corrispondenti, di sanzioni pecuniarie civili aggiuntive rispetto al risarcimento del danno. Un primo schema di decreto individua, dunque, talune fattispecie in cui – ferma la definizione della condotta illecita – la sanzione penale viene sostituita da quella meramente amministrativa. Il secondo decreto definisce l’abrogazione di taluni reati, “di più scarsa offensività”, e la conseguente introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili, associate al risarcimento del danno alla parte offesa.

Per “depenalizzazione”, di per sé, non si dovrebbe intendere una minore garanzia per i diritti dei consociati, bensì un ritorno all’idea del diritto penale come ultima istanza (“extrema ratio”), laddove non sia possibile tutelare con altri mezzi (civilistici o amministrativi) determinati beni, ovvero laddove gli interessi in gioco siano tali da richiedere una presa di posizione forte da parte dello Stato stesso. Certo è che il legislatore si sta muovendo sulla strada di questo “diritto penale minimo” che si ritrova anche in altre recenti riforme, come nell’introduzione della non punibilità per tenuità del fatto (DLgs. 28/2015) e in alcune scelte della riforma del diritto penale tributario (DLgs. 158/2015).

Per quanto riguarda l’ambito applicativo del “decreto depenalizzazione”, la sanzione amministrativa viene determinata in funzione a quella penale oggi vigente, sia che si tratti di una pena pecuniaria – multa o ammenda –, sia che si tratti della pena detentiva dell’arresto (tra le fattispecie punite con pena detentiva sono, infatti, comprese unicamente delle contravvenzioni – e non dei delitti – per la loro minore offensività).

La stessa L. 67/2014 ha individuato due diverse modalità di depenalizzazione. Quella di una depenalizzazione “in astratto” o “cieca”, attraverso l’utilizzo di una clausola generale che si riferisce a “tutte le violazioni per le quali è prevista la sola pena della multa o dell’ammenda” (art. 1 dello schema di decreto). Tale criterio generale di depenalizzazione è già stato in passato utilizzato (ad esempio, nell’art. 32 della L. 689/1981).

Tuttavia, con tale tecnica, residua il rischio di impattare su beni di rilevanza costituzionale: basti pensare alla fattispecie in materia di interruzione della gravidanza senza l’osservanza delle modalità indicate dalla legge, potenzialmente compresa tra tali disposizioni.

Escluse alcune delle fattispecie più dibattute
Anche per questo, nel decreto in approvazione, si è ritenuto di escludere che tale clausola generale possa operare nei confronti del codice penale e si è, altresì, optato per dare attuazione solo parziale alla delega ricevuta, escludendo alcune delle fattispecie più dibattute (in particolare, in materia di immigrazione e di stupefacenti).

Diversamente, la depenalizzazione “nominativa” indica specificamente le fattispecie su cui intervenire (artt. 2 e 3 dello schema di decreto). Si tratta di alcune contravvenzioni previste dal codice penale – accomunate dal fatto di incidere su interessi di natura prevalentemente privatistica (artt. 527, 528, 652, 661, 668, 726 c.p.) – e di diversi altri illeciti contenuti in leggi speciali. Tra questi ultimi, di particolare interesse è la depenalizzazione dell’omissione di ritenute previdenziali sotto la soglia di 10.000 euro. L’attuale testo dell’art. 2 comma 1-bis del DL 463/1983 dovrebbe essere sostituito dal seguente: “l’omesso versamento delle ritenute di cui al comma 1, per un importo superiore a euro 10.000 annui, è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a euro 1.032. Se l’importo omesso non è superiore a euro 10.000 annui, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 10.000 a euro 50.000. Il datore di lavoro non è punibile, né assoggettabile alla sanzione amministrativa, quando provvede al versamento delle ritenute entro tre mesi dalla contestazione o dalla notifica dell’avvenuto accertamento della violazione”.

Significativo è che su tale soglia di punibilità ha già avuto occasione di pronunciarsi la Corte di Cassazione, nelle more dell’attuazione della legge delega. Su questo punto, infatti, il legislatore delegante aveva già fornito una puntuale descrizione della disposizione da adottare (art. 2 comma 2 lett. c) della L. 67/2014), tanto che si è discusso sulla possibile immediata applicabilità di tale norma, seppur in assenza del decreto attuativo (cfr. da ultimo Cass. nn. 32355/2015 e 32337/2015).

fonte: eutekne.info   / Maria Francesca ARTUSI

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