Mantenimento, difficoltà economiche ed esigenze fondamentali di vita
Avv. Marco Trasacco | In tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare, l’incapacità economica dell’obbligato, intesa come impossibilità di far fronte agli adempimenti sanzionati dall’ articolo 570 del codice penale , deve essere assoluta e deve altresì integrare una situazione di persistente, oggettiva e incolpevole indisponibilità di introiti, e, comunque, integra il reato anche l’inadempimento parziale dell’obbligo di corresponsione dell’assegno alimentare quando le somme versate non consentano ai beneficiari di far fronte alle loro esigenze fondamentali di vita, quali vitto, alloggio, vestiario ed educazione (Cassazione penale , sez. VI , 20/02/2019 , n. 9430).
In particolare, la Corte di Appello, in accoglimento dell’impugnazione proposta dalla sola parte civile, riformava la pronuncia assolutoria di primo grado e condannava l’imputato al risarcimento dei danni, in relazione al reato di cui all’art. 570 c.p. e L. n. 898 del 1970, art. 12 sexies per essersi sottratto all’obbligo di corresponsione dell’assegno mensile di 730 Euro in favore dei figli minori e della moglie.
Rilevava la Corte territoriale come le emergenze processuali avessero provato l’inadempimento dell’imputato, il quale non aveva dato dimostrazione della sua impossibilità economica assoluta ad adempiere, essendo pure irrilevante che in alcuni mesi avesse versato un importo ridotto.
Avverso tale sentenza presentava ricorso l’imputato, ma la Corte di Cassazione rigettava l’impugnazione enunciando alcuni fondamentali principi in materia.
In seguito la sentenza per esteso.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PETITTI Stefano – Presidente –
Dott. COSTANZO Angelo – Consigliere –
Dott. AGLIASTRO Mirella – Consigliere –
Dott. APRILE Ercole – rel. Consigliere –
Dott. AMOROSO Riccardo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso presentato da:
S.G., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 08/11/2017 della Corte di appello di Lecce;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. Ercole Aprile;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore
generale Dott. CANEVELLI Paolo, che ha concluso chiedendo il rigetto
del ricorso;
udito per l’imputato l’avv. Raffaella Scutieri, in sostituzione
dell’avv. Ester Nemola, che ha concluso chiedendo l’annullamento
della sentenza impugnata.
Fatto
RITENUTO IN FATTO E CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Con la sentenza sopra indicata la Corte di appello di Lecce, in accoglimento dell’impugnazione proposta dalla sola parte civile, riformava la pronuncia assolutoria di primo grado del Tribunale della stessa città del 07/07/2015 e condannava S.G. al risarcimento dei danni in favore della medesima parte, in relazione al reato di cui all’art. 570 c.p. e L. n. 898 del 1970, art. 12 sexies per essersi sottratto, fino all’aprile del 2012, all’obbligo di corresponsione dell’assegno mensile di 730 Euro in favore dei figli minori M. e F., e della moglie C.E., nonchè al pagamento delle utenze domestiche dell’abitazione familiare, come concordato dai coniugi con verbale poi recepito nella sentenza di separazione.
Rilevava la Corte territoriale come le emergenze processuali avessero provato l’inadempimento dell’imputato, il quale non aveva dato dimostrazione della sua impossibilità economica assoluta ad adempiere, essendo pure irrilevante che in alcuni mesi avesse versato un importo ridotto.
2. Avverso tale sentenza ha presentato ricorso l’imputato, con atto sottoscritto dal suo difensore dell’epoca avv. Francesco Calabro, il quale ha dedotto i seguenti tre motivi.
2.1. Vizio di motivazione, in relazione all’art. 546, comma 1, lett. e), art. 603 c.p.p., comma 3, art. 6, par. 3, lett. d), CEDU, per avere la Corte di appello riformato la sentenza assolutoria senza provvedere alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale per l’assunzione della prova dichiarativa.
2.2. Violazione di legge, in relazione agli artt. 42 e 570 c.p., e vizio di motivazione, per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità, per avere la Corte distrettuale erroneamente riformato la sentenza assolutoria di primo grado, senza tenere conto che l’imputato non aveva modificato arbitrariamente la somma versata mensilmente alla coniuge separata, essendo stato costretto a quella riduzione in ragione delle sue precarie condizioni economiche e non avendo mai, comunque, fatto mancare ai figli i mezzi di sussistenza.
2.3. Violazione di legge, in relazione all’art. 538 c.p.p., e vizio di motivazione, per avere la Corte salentina omesso di indicare le ragioni della quantificazione del danno al cui risarcimento l’imputato è stato condannato.
3. Con memoria depositata in cancelleria il 14/02/2019 l’avv. Francesco Tobia Caputo, difensore delle parti civili C.E. e S.F., ha chiesto l’inammissibilità o il rigetto del ricorso dell’imputato, depositando pure nota spese e istanza di liquidazione degli onorari.
4. Ritiene la Corte che il ricorso vada rigettato.
4.1. Il primo motivo del ricorso è infondato.
E’ ben vero che nella giurisprudenza di legittimità si è affermato che il giudice di appello che riformi, ai soli fini civili, la sentenza assolutoria di primo grado (anche se emessa all’esito di giudizio abbreviato), sulla base di un diverso apprezzamento dell’attendibilità di una prova dichiarativa ritenuta decisiva, è obbligato a rinnovare l’istruzione dibattimentale, anche d’ufficio (così Sez. U, n. 18620 del 19/01/2017, Patalano, Rv. 269787), ma è anche vero che tale regola vale se il ribaltamento della decisione sia fondato essenzialmente su una rivalutazione della prova dichiarativa, la quale, dunque, acquista carattere di decisività nell’economia della pronuncia di secondo grado.
Tale criterio ermeneutico non risulta affatto disatteso nel caso di specie nel quale la Corte di appello di Lecce ha chiarito come i contorni della condotta omissiva tenuta dall’imputato nei riguardi della moglie separata e dei figli non erano affatto in discussione, essendo anzi sostanzialmente pacifici nella ricostruzione che le parti ne avevano dato. Non è un caso che nella motivazione della sentenza gravata vi è un solo riferimento alle dichiarazioni che la C., moglie dello S., aveva reso dinanzi al giudice di prime cure, in relazione ad una circostanza, quella della durata dell’attività lavorativa dell’imputato, che non aveva costituito oggetto di dubbio, essendo significativamente intervenute sul punto le concordi ammissioni del prevenuto.
La prova dichiarativa, perciò, non aveva assunto alcun carattere di decisività della nuova determinazione della Corte territoriale la quale aveva esplicitato come la differente valutazione della vicenda fosse dipesa da una diversa considerazione della prova documentale, in specie di quella relativa alle possidenze immobiliari e mobiliari dell’imputato, ai suoi rapporti debitori con equitalia e alla sua attività lavorativa come certificata dall’agenzia delle entrate.
4.2. Il secondo motivo del ricorso è manifestamente infondato.
Costituiscono ius receptum nella giurisprudenza di legittimità i principi secondo i quali, in tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare, l’incapacità economica dell’obbligato, intesa come impossibilità di far fronte agli adempimenti sanzionati dall’art. 570 c.p., deve essere assoluta e deve altresì integrare una situazione di persistente, oggettiva ed incolpevole indisponibilità di introiti (così, tra le molte, Sez. 6, n. 33997 del 24/06/2015, C., Rv. 264667); e che integra la fattispecie delittuosa in argomento anche l’inadempimento parziale dell’obbligo di corresponsione dell’assegno alimentare quando le somme versate non consentano ai beneficiari di far fronte alle loro esigenze fondamentali di vita, quali vitto, alloggio, vestiario ed educazione (Sez. 6, n. 13900 del 28/03/2012, F., Rv. 252608).
Di tali regulae iuris la Corte territoriale ha fatto buon governo, evidenziando come, da un lato, le carte del processo avessero dimostrato che, nel periodo oggetto di contestazione, cioè dal gennaio del 2011 all’aprile del 2012, lo S. aveva continuato a svolgere la sua attività di piastrellista (avendo cancellato la propria ditta solo nel novembre del 2012, iniziando a pagare ratealmente i suoi debiti con equitalia solo dal gennaio del 2013) ed aveva avuto disponibilità di beni immobili e mobili registrati, dunque non era stata affatto provata l’asserita assoluta incapacità economica del prevenuto; e, da altro lato, come, nell’arco temporale in contestazione, lo S. aveva talora omesso di versare del tutto quanto dovuto mensilmente ai due figli minori, tal’altra aveva arbitrariamente ridotto l’entità del versamento periodico, senza neppure attivarsi per domandare all’autorità giudiziaria una riduzione della somma stabilita nella sentenza di separazione.
4.3. Del tutto privo di pregio è il terzo motivo del ricorso, atteso che è pacifico che, in tema di liquidazione del danno non patrimoniale, la valutazione del giudice, affidata ad apprezzamenti discrezionali ed equitativi, è censurabile in sede di legittimità sotto il profilo del vizio della motivazione, solo se essa difetti totalmente di giustificazione o si discosti macroscopicamente dai dati di comune esperienza o sia radicalmente contraddittoria (così, ex multis, Sez. 5, n. 35104 del 22/06/2013, Baldini e altri, Rv. 257123): nel caso di specie l’importo di 5.000 Euro di liquidazione dei danni morali subiti dalla moglie e dai due figli minori, al cui risarcimento l’imputato è stato condannato, appare ragionevolmente stabilita in via equitativa dai giudici di merito, che, con motivazione adeguata, hanno ancorato la misura alla durata di quindici mesi nei corso dei quali lo S. aveva omesso di versare l’importo mensile dovuto ai familiari di 730 Euro ovvero aveva versato un importo sensibilmente inferiore.
5. Il principio della soccombenza avrebbe imposto la condanna del ricorrente alla rifusione delle spese di costituzione e difesa sostenute dalle parti civili, ma nel caso di specie tale pronuncia non è possibile in quanto la richiesta di liquidazione è stata formulata con una mera nota allegata ad una memoria depositata in cancelleria, non avendo il difensore partecipato all’odierna udienza.
A tanto osta il combinato disposto dell’art. 523 c.p.p., commi 1 e 2, e art. 614 c.p.p., comma 4, e art. 153 disp. att. c.p.p., che impone al difensore della parte civile di partecipare personalmente alla udienza per formulare e illustrare le proprie conclusioni e, solo all’esito della discussione, di depositare le conclusioni scritte e la nota spese. Nel corso del giudizio non è ammesso, dunque, alcun surrogato – quale il deposito di una memoria difensiva in cancelleria – ad una attività che deve essere esplicata innanzitutto mediante la partecipazione alla discussione in udienza, nel rispetto del principio dell’oralità che qualifica il processo penale anche nella trattazione delle questioni concernenti l’azione civile (in questo senso, secondo l’orientamento che appare maggioritario nella giurisprudenza di legittimità, Sez. 5, n. 29481 del 07/05/2018, Titton e altro, Rv., 273332).
6. Segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
Quanto alla richiesta di liquidazione delle spese di difesa in favore del difensore dell’imputato, ammesso al patrocinio a spese dello Stato, ogni determinazione sulla stessa va rimessa al giudice del merito.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 20 febbraio 2019.
Depositato in Cancelleria il 4 marzo 2019
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