La minaccia nel reato di truffa e di estorsione: distinzione
Avv. Marco Trasacco | Il criterio distintivo tra il reato di truffa e quello di estorsione, quando il fatto è connotato dalla minaccia di un male, va ravvisato essenzialmente nel diverso modo di atteggiarsi della condotta lesiva e nella diversa incidenza nella sfera soggettiva della vittima. Ricorre la prima ipotesi delittuosa se il male viene ventilato come possibile ed eventuale e comunque non dipendente (direttamente o indirettamente) da chi lo prospetta, sicché la persona offesa non è coartata, ma si determina alla prestazione, costituente l’ingiusto profitto dell’agente, perché tratta in errore dalla esposizione di un pericolo inesistente; si configura, invece, l’estorsione se il male viene indicato come certo e realizzabile ad opera del reo o di altri, in tal caso la persona offesa è posta nella ineluttabile alternativa di far conseguire all’agente il preteso profitto o di subire il male minacciato (Cassazione penale , sez. II , 09/10/2018 , n. 47300)
Nello specifico, il reato di estorsione si caratterizza per la volontà di costrizione del soggetto agente sulla vittima, attraverso una condotta capace di annullare le facoltà volitive di quest’ultima, andandola a trasformare in una esecutrice forzata delle proprie pretese.
In seguito la sentenza per esteso.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DIOTALLEVI Giovanni – Presidente –
Dott. VERGA Giovanna – Consigliere –
Dott. PELLEGRINO Andrea – rel. Consigliere –
Dott. BELTRANI Sergio – Consigliere –
Dott. CIANFROCCA Pierluigi – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto nell’interesse di:
S.M., n. a (OMISSIS), rappresentato ed assistito dall’avv.
Piergiorgio Manca, di fiducia;
avverso l’ordinanza del Tribunale di Roma, n. 1864/2018, in data
03/07/2018;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
sentita la relazione della causa fatta dal consigliere Andrea
Pellegrino;
udita la requisitoria del Sostituto procuratore generale Marilia Di
Nardo che ha chiesto di dichiararsi l’inammissibilità del ricorso.
Fatto
RITENUTO IN FATTO
1. Con ordinanza in data 03/07/2018, il Tribunale di Roma rigettava il ricorso presentato nell’interesse di S.M. avverso l’ordinanza con la quale il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Tivoli in data 18/06/2018 aveva applicato nei confronti dello stesso la misura cautelare degli arresti domiciliari per il reato di estorsione.
2. Avverso detta ordinanza, nell’interesse di S.M., viene proposto ricorso per cassazione per lamentare vizio di motivazione in relazione all’art. 273 c.p.p. e ss.: si censura l’ordinanza impugnata che ha confermato la misura cautelare per il reato di estorsione in luogo di quello di truffa (in realtà, solo tentata) pur in presenza di una condotta priva di prospettazione di un male futuro.
Diritto
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
2. Come è noto, il reato di estorsione si caratterizza, in generale, per la volontà di costrizione dell’agente sulla vittima, con la realizzazione di una condotta capace di annullare le facoltà volitive di quest’ultima, trasformandola in una esecutrice forzata delle proprie pretese.
2.1. D’altra parte, il criterio distintivo tra il reato di truffa e quello di estorsione, quando il fatto è connotato dalla minaccia di un male, va ravvisato essenzialmente nel diverso modo di atteggiarsi della condotta lesiva e nella diversa incidenza nella sfera soggettiva della vittima. Ricorre la prima ipotesi delittuosa se il male viene ventilato come possibile ed eventuale e comunque non dipendente (direttamente o indirettamente) da chi lo prospetta, sicchè la persona offesa non è coartata, ma si determina alla prestazione, costituente l’ingiusto profitto dell’agente, perchè tratta in errore dalla esposizione di un pericolo inesistente; si configura, invece, l’estorsione se il male viene indicato come certo e realizzabile ad opera del reo o di altri, in tal caso la persona offesa è posta nella ineluttabile alternativa di far conseguire all’agente il preteso profitto o di subire il male minacciato (cfr., ex multis, Sez. 2, n. 35346 del 30/06/2010, De Silva e altro, Rv. 248402; Sez. 2, n. 7662 del 27/01/2015, Lanza, Rv. 262574).
2.1.1. La diagnosi differenziale tra il reato di truffa e quello di estorsione deve essere effettuata attraverso una attenta indagine delle emergenze processuali volta a verificare: a) se il male minacciato sia reale o immaginario e se questo dipenda dall’agente (ovvero sia a questi “gestibile”) o da altri; b) se la prospettazione di tale male produca, in concreto, una manipolazione della volontà riconducibile alla induzione in errore piuttosto che ad una vera e propria coazione della volontà. Per quanto la prospettazione di un effetto negativo abbia – comunque e ragionevolmente – come conseguenza una reazione di “evitamento” del male prospettato, quel che rileva ai fini del corretto inquadramento del fatto è se tale reazione sia riconducibile ad una condotta fraudolenta, piuttosto che ad una irresistibile coartazione. Se, cioè, la volontà della vittima risulti semplicemente manipolata o, piuttosto, irresistibilmente coartata. La coazione della volontà si distingue dalla manipolazione agita attraverso l’induzione in errore, in quanto solo nel primo caso la azione illecita si presenta irresistibile. Evidentemente, l’effetto manipolativo, piuttosto che coercitivo, della minaccia dipende dalla caratteristiche (più o meno intimidatorie) della stessa, oltre che dalla specifica resilienza della vittima al male prospettato.
2.1.2. L’induzione in errore è, infatti, azione diversa dalla costrizione sebbene entrambe le condotte siano idonee a deviare il fisiologico sviluppo dei processi volitivi: la condotta induttiva, anche quando si manifesta con la esposizione di pericoli inesistenti, si differenzia dalla condotta estorsiva proprio nella misura in cui la volontà risulta “diretta” e “manipolata”, ma non irresistibilmente “piegata”.
2.1.3. L’idoneità della rappresentazione del male a “dirigere” piuttosto che “piegare” la volontà non può essere stabilita in astratto, ma necessita di uno scrutinio che verifichi in concreto la consistenza della azione minatoria, anche rispetto alla effettiva resilienza della vittima. Tale indagine non può che analizzare l’idoneità coercitiva della minaccia nel momento in cui la stessa viene posta in essere, nulla rilevando che ex post il male prospettato risulti irrealizzabile.
2.2. Invero, se si individua nella concreta efficacia coercitiva della minaccia, l’attributo della condotta utile per distinguere la truffa dall’estorsione, perde rilevanza anche la eventuale irrealizzabilità del male prospettato, essendo l’analisi richiesta limitata alla verifica ex ante della concreta efficacia coercitiva della azione minatoria. Nè la irrealizzabilità del male minacciato consente di invocare l’art. 49 c.p.: individuato nel costringimento violento della vittima l’elemento caratterizzante del reato di estorsione, l’idoneità del male minacciato ad incidere il processo volitivo non può che essere valutato ex ante ed in modo indipendente dalla effettiva realizzabilità dell’evento dannoso prospettato. E, la valutazione della capacità di concreta ed effettiva coazione della minaccia è, ancora una volta, un’indagine di merito che deve essere effettuata prendendo in esame le circostanze del caso concreto ovvero sia la violenza oggettiva della minaccia che la sua soggettiva incidenza sulla specifica vittima (Sez. 6, n. 27996 del 28/05/2014, Stasi e altro, Rv 261479).
2.3. Alla luce delle considerazioni che precedono, va ribadito il principio di diritto secondo cui la distinzione tra il reato di truffa consumata attraverso la prospettazione di un pericolo non reale, ed il reato di estorsione deve essere effettuata valutando la concreta efficacia coercitiva della minaccia, dovendosi ritenere che si verte nella ipotesi estorsiva quando il male prospettato si presenta irresistibile e coarta la volontà della vittima; si verte invece nell’ipotesi della truffa quando la minaccia del pericolo irrealizzabile, per la sua intrinseca consistenza, non ha capacità coercitiva, ma si limita ad influire sul processo di formazione della volontà deviandolo attraverso la induzione in errore (Sez. 2, n. 46084 del 21/10/2015, Levak, Rv. 265362). La valutazione della efficacia coercitiva, piuttosto che semplicemente manipolativa della minaccia deve essere effettuata con apprezzamento da effettuarsi ex ante, ovvero in modo indipendente dalla effettiva realizzabilità del male prospettato.
3. Nel caso di specie, in coerenza con tali linee ermeneutiche, veniva esclusa la riconducibilità della condotta ad una ipotesi di truffa: il pericolo prospettato aveva infatti una effettiva e concreta incidenza coercitiva ampiamente evidenziata dal Tribunale, che rilevava come non fossero emersi elementi indicativi di una inidoneità specifica della condotta ad incidere sul processo volitivo della vittima ma, soprattutto, che la gravità delle minacce e la loro efficacia intimidatoria erano stati tali da avere indotto la vittima a denunciare il fatto ed a porsi sotto la protezione delle forze dell’ordine.
4. Manifestamente infondato è anche il profilo di censura che invoca la qualificazione del fatto contestato come delitto tentato piuttosto che consumato.
Il Collegio condivide, sul punto, l’orientamento secondo cui in tema di estorsione, il delitto deve considerarsi consumato e non solo tentato allorchè la cosa estorta venga consegnata dal soggetto passivo all’estorsore, e ciò anche nelle ipotesi in cui sia predisposto l’intervento della polizia giudiziaria che provveda immediatamente all’arresto del reo ed alla restituzione del bene all’avente diritto (Sez. 2, n. 1619 del 12/12/2012, dep. 2013, Russo, Rv. 254450; Sez. 2 n. 27601 del 19/06/2009, Gandolfi e altro, Rv. 244671; Sez. U, n. 19 del 27/10/1999, P.M. in proc. Campanella, Rv. 214642).
Secondo questa ampiamente condivisibile giurisprudenza, il fatto che “la vittima dell’estorsione si adoperi affinchè la polizia giudiziaria possa pervenire all’arresto dell’autore della condotta illecita non elimina lo stato di costrizione, ma è una delle molteplici modalità di reazione soggettiva della persona offesa allo stato di costrizione in cui essa versa. Il legislatore, con la formula adottata – “… costringendo taluno a fare od omettere qualche cosa”, prende in considerazione lo stato oggettivo di costrizione e non distingue le ragioni che possono indurre la persona offesa ad aderire alla pretesa estorsiva” (Sez. 2 n. 44319 del 18/11/2005, Terrenghi, Rv. 232506).
5. Il provvedimento impugnato opera corretta applicazione dei principi in parola offrendo motivazione del tutto congrua e priva di vizi logico-giuridici.
6. Alla pronuncia consegue, per il disposto dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonchè al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma che, considerati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro duemila
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila alla Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 9 ottobre 2018.
Depositato in Cancelleria il 17 ottobre 2018
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