La falsificazione di un assegno bancario non trasferibile non è reato

assegno falso Tempo di lettura stimato: 17 minuti
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Avv. Marco Trasacco | La falsità commessa su un assegno bancario munito della clausola di non trasferibilità configura la fattispecie di cui all’ art. 485 cod. pen. , abrogato dall’ art. 1, comma 1, lett. a), del d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7 e trasformato in illecito civile (Cassazione penale sez. un.  19 luglio 2018 n. 40256).

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE PENALI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CARCANO Domenico – Presidente –
Dott. DI TOMASSI Mariastefania – Consigliere –
Dott. BONITO Francesco M. S – Consigliere –
Dott. CERVADORO Mirella – Consigliere –
Dott. PICCIALLI Patrizia – rel. Consigliere –
Dott. FIDELBO Giorgio – Consigliere –
Dott. DI STEFANO Pierluigi – Consigliere –
Dott. ANDREAZZA Gastone – Consigliere –
Dott. CAPUTO Angelo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
F.S., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del Giudice per le indagini preliminari del
Tribunale di Avezzano del 06/07/2016;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
sentita la relazione svolta dal componente Patrizia Piccialli;
letta le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto
procuratore generale Dott. MAZZOTTA Gabriele, che ha concluso
chiedendo il rigetto del ricorso.

Fatto
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza in data 6 luglio 2016 il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Avezzano applicava ex art. 444 cod. proc. pen. a F.S. la pena concordata tra le parti di mesi tre di reclusione ed Euro trecento di multa per i reati di ricettazione (capo a) e falsificazione di assegno bancario non trasferibile (capo b).

2. L’imputato, tramite il proprio difensore, propone ricorso articolando un unico motivo con il quale lamenta che il giudice avrebbe dovuto rigettare la richiesta di applicazione della pena, perchè il falso contestato al capo b) ai sensi degli artt. 485 e 491 cod. pen.) era stato, alla data della pronuncia, abrogato dal D.Lgs. n. 7 del 2016.

3. Con ordinanza del 7 marzo 2016, la Seconda Sezione penale ha rimesso il ricorso alle Sezioni unite, rilevando l’esistenza di un contrasto interpretativo sulla questione relativa alla depenalizzazione della falsità in assegno bancario contenente la clausola di non trasferibilità, la cui risoluzione è determinante per la decisione.

4. Con decreto in data 16 maggio 2018 il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione l’odierna udienza camerale.

Diritto
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. La questione di diritto per la quale il ricorso è stato rimesso alle Sezioni unite, sul rilievo di un persistente contrasto giurisprudenziale, è la seguente:

“Se la falsità commessa sull’assegno bancario, munito della clausola di non trasferibilità, rientri nella fattispecie di cui all’art. 485 cod. pen., abrogato dal D.Lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, art. 1, comma 1, lett. a) e trasformato in illecito civile, ovvero configuri il reato di falsità in testamento olografo, cambiale o titoli di credito previsto dall’art. 491 cod. pen., come riformulato dal medesimo D.Lgs. n. 7 del 2016”.

2. Secondo un primo orientamento, fatto proprio dalla Quinta Sezione penale, in tema di falso in scrittura privata, a seguito dell’abrogazione dell’art. 485 cod. pen. e della nuova formulazione dell’art. 491 cod. pen., la condotta di falsificazione di un assegno bancario munito di clausola di “non trasferibilità” non è più sottoposta a sanzione penale, applicandosi l’art. 491 cod. pen. soltanto alle falsità commesse su titoli di credito “trasmissibili per girata”, tra i quali non possono includersi gli assegni bancari non trasferibili (Sez. 5, n. 32972 del 04/04/2017, Valentini, Rv. 270677; Sez. 5, n. 11999 del 17/01/2017, Toma, Rv. 269710; Sez. 5, n. 3422 del 22/11/2016 (dep.2017), Merolla).

Tale soluzione è stata adottata alla luce della risalente pronuncia delle Sez. U, n.4 del 20/02/2007, Guarracino, Rv. 11812, la quale ha affermato che la falsità commessa in assegno bancario munito della clausola di non trasferibilità non è punibile a norma dell’art. 491 cod. pen., ma dell’art. 485 cod. pen..

Secondo la citata sentenza la ragione della più rigorosa tutela accordata dall’art. 491 cod. pen. a titoli di credito al portatore o trasmissibili per girata, nella equiparazione quoad poenam di tali titoli agli “atti pubblici”, non risiede nella loro natura giuridica nè nella loro attitudine alla circolazione illimitata, comuni a tutti i titoli di credito, ma è determinata dal maggior pericolo di falsificazione insito nel regime di circolazione proprio del titolo al portatore o trasmissibile per girata rispetto al regime di circolazione dei titoli nominativi.

Ne deriva, secondo le Sezioni Unite Guarracino, che la circolabilità propria dei titoli di credito presi in considerazione dalla norma citata deve esistere in concreto, come requisito essenziale ai fini dell’inquadramento dell’illecito nell’art. 491 cod. pen. e che non si possa prescindere dalle clausole che in concreto ostacolino la circolazione dei titoli anzidetti.

La clausola di non trasferibilità apponibile all’assegno bancario o all’assegno circolare (R.D. 21 dicembre 1933, n. 1736, artt. 43 e 86) immobilizzando il titolo nelle mani del prenditore, ne esclude la trasmissibilità per girata, tale non potendo considerarsi la girata ad un banchiere per l’incasso, che ha natura di mandato a riscuotere ed è priva di effetti traslativi del diritto inerente al titolo.

2.1. A tale indirizzo si contrappone il diverso orientamento della Seconda Sezione, cui l’ordinanza mostra chiaramente di aderire, secondo cui la falsità commessa su un assegno bancario munito della clausola di non trasferibilità risulta ancora oggi penalmente rilevante, nonostante l’abrogazione dell’art. 485 cod. pen., rientrando nel raggio applicativo del reato di falsità in testamento olografo, cambiale o titoli di credito (Sez. 2, n.13086 del 01/03/2018, Solla, Rv. 272540; Sez. 2, n. 36670 del 22/06/2017, Milani, Rv. 271111; Sez. 2, n. 12599 del 24/11/2017, Grassi, Rv. 272368).

In tal senso è stato dato rilievo al fatto che la nuova disposizione dell’art. 491 cod. pen., per effetto del D.Lgs. n. 7 del 2016, non distingue le varie tipologie di girate rilevanti, sicchè anche l’assegno bancario non trasferibile trasmissibile mediante girata per l’incasso – rientrerebbe nella fattispecie di cui all’art. 491 cod. pen..

Tale conclusione è fondata sul rilievo che la “girata” in senso tecnico è anche quella effettuata al banchiere per l’incasso, posto che l’assegno contraffatto, anche se non trasferibile, è girabile per l’incasso (c.d. girata impropria) ed in tale momento è ancora possibile che esso eserciti una funzione dissimulatoria, almeno nei confronti dell’impiegato di banca e dell’istituto di credito.

Si rileva, inoltre, come non si rinvenga alcuna traccia nei lavori preparatori del D.Lgs. n. 7 del 2016 della volontà del legislatore di depenalizzare la maggior parte dei più gravi falsi in assegni: infatti, gli assegni di importo pari o superiore a mille Euro devono essere dotati anche della clausola di non trasferibilità, dopo l’entrata in vigore del D.L. 6 dicembre 2011, convertito con modificazioni, dalla L. 22 dicembre 2011, n. 214 (il cui art. 12 ha modificato il D.Lgs. 21 novembre 2007, n. 231, art. 49, comma 5).

Nella motivazione della citata sentenza n. 13086 del 2018 si evidenzia altresì come seguendo la contraria interpretazione si avrebbe la paradossale conseguenza, censurabile anche sotto il profilo della illegittimità costituzionale, che il falso in titolo di credito sarebbe ancora reato solo qualora lo stesso sia privo di detta clausola (il che è possibile, per la citata disposizione normativa, per un titolo di credito di importo inferiore a mille Euro), vale a dire per condotte espressione di un minore disvalore e con più limitati effetti pregiudizievoli.

Si sottolinea, infine, che nessun valido argomento può trarsi della sentenza delle Sezioni unite Guarracino, in quanto la decisione si riferiva ad un assetto normativo nel quale tutte le falsificazioni su assegni erano penalmente rilevanti.

3. Le Sezioni Unite ritengono debba essere condiviso il primo orientamento interpretativo. Una pluralità di ragioni confermano tale soluzione.

In via preliminare è opportuno ricordare il quadro normativo di riferimento. La L. 28 aprile 2014, n. 67, art. 2, comma 3, lett. a), ha conferito delega al Governo per procedere all’abrogazione dei reati previsti da specifiche disposizioni del codice penale e, specificamente, al numero I) all’abrogazione dei delitti in materia di falsità in atti, “limitatamente alle condotte private, ad esclusione delle fattispecie previste dall’art. 491”; la successiva lettera c) della disposizione, “fermo il diritto al risarcimento del danno”, ha dato mandato al Governo di “istituire adeguate sanzioni pecuniarie civili in relazione ai reati di cui alla lettera a)”.

Il D.Lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, artt. 1 e 2, individuano l’ambito operativo dell’intervento di abrogazione e apportano i necessari adattamenti per adeguare il codice penale alle modifiche introdotte.

Ed invero, si può affermare che l’ingresso nell’ordinamento dei nuovi illeciti civili sia stato strutturato dal decreto in esame in due fasi.

Alla prima fase, di carattere demolitorio, concretizzantesi in una abolitio criminis totale (art. 1) o parziale (art. 2) di una serie di reati, è seguita l’introduzione di corrispondenti fattispecie di illecito civile (articolo 4). Con particolare riferimento all’articolo 1, vengono abrogati cinque reati, perseguibili a querela, di competenza del tribunale in composizione monocratica (i primi tre sotto elencati) o del giudice di pace (le ulteriori due fattispecie):

1) art. 485 cod. pen. (Falsità in scrittura privata); 2) art. 486 cod. pen. (Falsità in foglio firmato in bianco. Atto privato); 3) art. 594 cod. pen. (Ingiuria); 4) art. 627 cod. pen. (Sottrazione di cose comuni); 5) art. 647 cod. pen. (Appropriazione di cose smarrite).

Per ragioni di coordinamento formale e di rispetto del principio di tassatività e determinatezza, il legislatore delegato ha riscritto numerose norme del codice penale che facevano riferimento o presupponevano i reati abrogati, con l’obiettivo di espungere definitivamente il richiamo alle disposizioni abrogate e di consentire l’operatività (esattamente come nel regime previgente) dei reati non toccati dall’intervento, come esplicitato nella relazione governativa di accompagnamento al decreto ove si fa riferimento agli adattamenti resisi necessari dall’abrogazione di cui all’art. 1 del decreto.

In conseguenza della soppressione degli artt. 485 e 486, alcune modifiche espungono semplicemente il riferimento ai predetti reati negli artt. 488 (Altre falsità in foglio firmato in bianco), 489 (Uso di atto falso), 490 (Soppressione, distruzione o occultamento di atti veri), 491-bis (Documenti informatici), 493-bis (Casi di perseguibilità a querela).

Si è provveduto altresì a riscrivere l’art. 491 cod. pen. (la cui originaria rubrica “Documenti equiparati agli atti pubblici agli effetti della pena” è stata modificata in “Falsità in testamento, olografo, cambiale o titolo di credito”), lasciando inalterato il rilievo penale delle condotte di falsificazione “del testamento olografo ovvero una cambiale o un altro titolo di credito trasmissibile per girata o al portatore”.

La disposizione attua quanto disposto dall’art. 2, comma 3, lett. a), n.1) della legge delega che, nel prescrivere l’abrogazione dei delitti di cui al libro secondo, titolo VII, capo III, limitatamente alle condotte relative a scritture private, disponeva che dalla depenalizzazione fossero escluse le scritture di cui all’art. 491 cod. pen., ossia i documenti privati equiparati agli atti pubblici agli effetti della pena.

Come posto in rilievo dalla stessa relazione di accompagnamento al decreto, è mutata la natura giuridica della fattispecie di cui all’art. 491 cod. pen., comma 1, in quanto, se prima costituiva una circostanza aggravante applicabile all’art. 485 cod. pen., in seguito all’abrogazione della ipotesi base è divenuta una nuova fattispecie autonoma.

Il nuovo articolo, al comma 1, richiede che il fatto sia commesso “al fine di recare a sè o ad altri un vantaggio o di recare al altri un danno”, richiamando il dolo specifico quale elemento soggettivo della condotta, come già previsto dall’art. 485 cod. pen..

Contrariamente a quanto previsto prima della riforma, il primo comma della norma vigente punisce la sola falsificazione (intesa nelle sue tradizionali forme della alterazione o della contraffazione) a prescindere dall’uso del documento non genuino, che ormai rileva solo nel comma 2, in riferimento alla diversa condotta di colui che non ha partecipato alla falsità (v., in tal senso, Sez. 5, n. 12599 del 20/12/2016 (dep. 2017), Bevilacqua, Rv. 269708).

In base alla ratio delle modifiche introdotte ed al dato testuale, il reato continua a punire le falsità aventi ad oggetto i medesimi documenti indicati nel testo previgente, ovvero “un testamento olografo ovvero una cambiale o un altro titolo di credito trasmissibile per girata o al portatore”.

Va poi richiamato, dal punto di vista normativo, con riferimento alla falsificazione di titoli di credito che “non sono trasmissibili per girata” ovvero “non trasferibili”, il R.D. 21 dicembre 1933, n. 1736, art. 43, secondo il quale l’assegno bancario emesso con la clausola di non trasferibilità può essere pagato solo al prenditore ovvero, su richiesta del medesimo, essere accreditato sul conto corrente; è prevista, inoltre, la possibilità che lo stesso assegno venga girato ad un banchiere per l’incasso, il quale non è abilitato a girarlo ulteriormente.

3.1. Questa premessa consente di affrontare la questione di diritto posta all’attenzione delle Sezioni Unite e la corretta interpretazione delle norme in materia.

Va rimarcato innanzitutto che la clausola di non trasferibilità dell’assegno bancario, circolare, postale, nel corso del tempo ha cambiato la propria posizione a seguito di una serie di specifici interventi normativi sulla cd. disciplina antiriciclaggio, a cominciare dal D.L. 3 maggio 1991, n. 143 convertito dalla L. 5 luglio 1991, n. 197, aventi ad oggetto assegni di importi via via minori.

Nell’attuale contesto normativo, dal 4 luglio 2017 (entrata in vigore del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 90, di attuazione della IV direttiva antiriciclaggio) è confermato il divieto di utilizzo di denaro contante (o di titoli al portatore) per gli importi pari o superiori ad Euro 3.000,00 (L. 28 dicembre 2015, n. 208, art. 1, comma 898). Resta il limite di 999,99 per l’emissione di assegni senza causa di non trasferibilità.

In sostanza, la clausola risulta imposta dalla legge in via automatica per gli assegni di importi pari o superiore a 1.000,00 Euro, posto il dovere delle banche di confezionare e rilasciare solamente assegni già muniti della clausola in prestampato. Lo è in pratica anche per gli assegni destinati a recepire importi inferiori, dati i termini dell’alternativa lasciata aperta dalla legge: il rilascio di assegni “puliti” della clausola (in forma libera) segue ad un’apposita richiesta del cliente, nonchè al previo versamento di una somma misurata su ciascuno dei moduli che vengono nel concreto consegnati al cliente (imposta di bollo).

Si può pertanto concludere nel senso che la clausola di non trasferibilità risulta, ad oggi, essere un elemento inevitabile degli assegni che posseggano sostanziale riscontro economico, ma quasi inevitabile anche per gli altri in ragione della richiesta espressa necessaria al fine di ottenere assegni cd. liberi.

Non è più possibile, pertanto, affermare che scopo della clausola è dare un’assoluta sicurezza del pagamento al prenditore evitandogli i pericoli dello smarrimento e della distruzione del titolo, giacchè scopo di questa è piuttosto quella di impedire la libera circolazione dell’assegno nel quadro di riferimento delineato dalla normativa sulla prevenzione del riciclaggio.

4. Occorre chiedersi se tale diversa considerazione normativa della clausola di non trasferibilità, divenuta parte integrante dell’assegno, con dichiarata finalità antiriciclaggio, e non più apposta nell’interesse del traente o del girante, abbia apportato indirettamente un mutamento del significato da attribuire al termine “girata” di cui al citato R.D. n. 1736 del 1933, art. 43 ed alla locuzione “titoli di credito trasmissibili per girata” di cui all’art. 491 cod. pen. nonchè al concetto di “concreta circolazione” enunciato dalle Sezioni Unite Guarracino e dalla recente giurisprudenza della Sez. 5 di questa Corte che ne mutua le argomentazioni.

La risposta è negativa.

Anche nella diversa prospettiva antiriciclaggio, gli effetti della clausola di non trasferibilità sono sempre gli stessi: preclusione alla circolazione dell’assegno, con l’eccezionale previsione della girata per l’incasso a favore di un banchiere, spiegabile con la necessità di non imporre al portatore l’onere di una riscossione diretta.

Rimane attuale il principio espresso dalle Sezioni Unite Guarracino, secondo cui l’apposizione della clausola di non trasferibilità immobilizza il titolo nelle mani del prenditore, tale non potendo considerarsi la girata ad un banchiere per l’incasso, che ha natura di semplice mandato a riscuotere ed è priva di effetti traslativi del diritto inerente al titolo.

Non può essere posto in dubbio che anche oggi la clausola di non trasferibilità modifica “in concreto” il regime della circolazione del titolo, così facendo venire meno il requisito della maggiore esposizione al pericolo della falsificazione che giustifica la più rigorosa tutela penale.

Ed è proprio la non trasferibilità del titolo che impone di ricondurne l’uso nell’ambito della ipotesi di cui all’art. 485 cod. pen., fattispecie ormai abrogata.

La ratio della tutela dell’art. 491 cod. pen. è rimasta invariata rispetto alla sentenza Guarracino, essendo strettamente connessa al maggior pericolo di falsificazione insito nel regime di circolazione dei titoli trasmissibili in proprietà mediante girata, trattandosi di un meccanismo circolatorio particolarmente esposto per le sue caratteristiche a condotte insidiose ed idonee a pregiudicare l’affidamento di una pluralità di soggetti sulla correttezza degli elementi indicati nel titolo.

5. Non vi sono elementi di segno contrario suscettibili di portare ad una rilettura critica del principio espresso dalle Sezioni Unite Guarracino.

E’ stato sostenuto che tale orientamento porterebbe al risultato irragionevole, censurabile evidentemente anche sotto il profilo della legittimità costituzionale, di ricondurre nell’ambito della tutela penalistica la falsità in assegni solo qualora il titolo di credito sia privo di detta clausola (il che è possibile, per la citata disposizione normativa, per importi inferiori a 1.000 Euro), vale a dire per condotte espressione di un minore disvalore e con più limitati effetti pregiudizievoli.

Al contrario, sarebbero da ricondurre nell’ambito dell’illiceità solo civile la falsità in assegni per importi a quella soglia superiore con un rovesciamento dello stesso principio di offensività.

Va innanzitutto richiamato il dato oggettivo, sopra evidenziato, che, alla luce della recente disciplina antiriciclaggio, la clausola di non trasferibilità risulta essere un elemento inevitabile degli assegni che posseggano sostanziale riscontro economico, ma quasi inevitabile anche per gli altri in ragione della richiesta espressa, necessaria al fine di ottenere assegni c.d. liberi.

In questa prospettiva, la regola dell’apposizione indifferenziata della clausola di non trasferibilità agli assegni, se perseguita stabilmente dagli istituti di credito, consentirebbe di trasformare tutti i falsi in assegni bancari in illeciti civili.

La ratio di maggior tutela dell’art. 491 cod. pen., inoltre, non risiede nel maggiore o minore importo dell’assegno, ma, come già evidenziato nella sentenza Guarracino, va rinvenuta in quegli aspetti del regime di circolazione propri dei titoli al portatore o trasmissibili per girata che, per certe caratteristiche comuni di libera trasferibilità a più soggetti, determinano, rispetto al regime di circolazione dei titoli nominativi, un più frequente pericolo di falsificazione.

Va, altresì, disattesa l’affermazione secondo cui i principi espressi dalle Sezioni Unite Guarracino non dovrebbero continuare a valere anche nell’attuale assetto normativo, in quanto la decisione si riferiva ad una situazione in cui tutte le falsificazioni su assegni erano comunque penalmente rilevanti.

Va rimarcato, invero, come tale pronuncia abbia preso posizione su elementi costitutivi dell’ipotesi di cui all’art. 491 cod. pen. e sul fondamento giustificativo della tutela offerta da siffatta previsione, i quali risultano a tutt’oggi immutati.

Nè può ritenersi, come l’opposto orientamento, che il tenore letterale dell’art. 491 cod. pen., come sostituito dal D.Lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, art. 2, comma 1, lett. d), non distinguerebbe tra le varie tipologie di girata rilevanti.

Sul punto va evidenziato che la girata cui fa riferimento l’art. 491 cod. pen. alla luce di una imprescindibile lettura teleologica della norma – la tutela dei titoli che per il regime di circolazione sono esposti a più frequenti rischi di falsificazione – va necessariamente riferita al negozio giuridico che determini una “concreta circolazione” del titolo.

La soluzione proposta è, del resto, coerente con una lettura civilistica degli effetti della girata.

Ai sensi dell’art. 2011 cod. civ. “la girata trasferisce tutti i diritti inerenti al titolo”.

La girata al banchiere per l’incasso, che implica un semplice mandato a riscuotere, non trasferisce, invece, al giratario nè la proprietà del titolo nè una legittimazione propria, ma solo una legittimazione nell’interesse altrui quale effetto del mandato.

Va aggiunto che la girata per l’incasso al banchiere è evidentemente una eccezione alla regola della esclusione della circolazione del titolo non trasferibile, ma tale eccezione, come sottolineato dalla dottrina, è finalizzata esclusivamente a rapportare la disciplina dell’assegno non trasferibile all’interesse concreto del portatore di svincolarsi dall’onere di una riscossione diretta, ed eventualmente ad incassare il titolo anche presso una banca diversa dalla trattaria, deroga ammissibile in considerazione della responsabilità professionale e della tendenziale funzione di pubblico interesse degli istituti di credito.

Nè è possibile individuare tra gli scopi di tutela dell’art. 491 cod. pen. anche la mera circolazione intra-bancaria del titolo, unica forma di “transito” legale ipotizzabile per gli assegni non trasferibili.

Tale soluzione non si concilia con la finalità perseguita con la mantenuta punizione penale del reato di falsità in testamenti olografi, cambiali e altri titoli di credito.

A ben vedere, da un lato, il bene tutelato dalla norma è in primo luogo quello della fede pubblica, richiedendosi la messa in pericolo della fiducia di un numero indeterminato di persone sulla genuinità del documento; dall’altro, come correttamente rilevato già dalle Sezioni Unite Guarracino, la ratio di tutela dell’art. 491 cod. pen. è strettamente connessa al maggior pericolo di falsificazione insito nel regime di circolazione dei titoli trasmissibili in proprietà mediante girata, trattandosi di un meccanismo circolatorio particolarmente esposto (per le sue stesse caratteristiche) a condotte insidiose e idonee a pregiudicare l’affidamento di una pluralità di soggetti sulla correttezza degli elementi indicati nel titolo.

La libera trasferibilità in proprietà del titolo mediante semplice trasmissione del possesso dello stesso o apposizione di girata sull’assegno si configura, pertanto, come elemento essenziale del reato ex art. 491 cod. pen. e, per converso, la clausola che limiti la circolazione del titolo esclude la rilevanza penale del fatto.

Insomma, è alla libera e corretta circolazione del diritto cartolare tra il pubblico che il legislatore sembra aver rivolto la sua attenzione, e non già al (limitato) “transito” del titolo tra istituti di credito, nè tantomeno a forme irregolari di circolazione di assegni non trasferibili che, a norma del R.D. n. 1736 del 1933, possono essere validamente incassati soltanto da soggetti determinati, circostanza, quest’ultima, che, secondo certa risalente dottrina, potrebbe addirittura escludere la stessa natura di titolo di credito del documento: il che, chiaramente, escluderebbe in radice la configurabilità dell’art. 491 cod. pen..

Una diversa conclusione non è consentita dalla rigorosa applicazione del principio di legalità.

6. In conclusione, può affermarsi, in linea con una parte della dottrina, che con l’entrata in vigore del D.Lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, la politica di decriminalizzazione ha intrapreso una nuova strada di arretramento del diritto penale che ha comportato la trasformazione di taluni reati (a tutela della fede pubblica, dell’onore e de patrimonio) in illeciti civili a cui applicare sanzioni pecuniarie punitive irrogate dal giudice civile che si aggiungono alla sanzione riparatoria del risarcimento del danno.

Nella relazione al disegno di legge AS n.110, presentato nel corso della XVII Legislatura, che ha rappresentato la base per l’adozione dell’art. 2, comma 3, della legge delega n. 67 del 2014, le “sanzioni pecuniarie civili” vengono ricondotte al concetto di pena privata e si afferma in particolare che “mentre il risarcimento ha una funzione riparatoria, la pena privata ha una funzione sanzionatoria e preventiva e si giustifica allorquando l’illecito, oltre a determinare un danno patrimoniale, consente di ottenere un arricchimento ingiustificato. In tali casi se il legislatore si limitasse alla eliminazione della illiceità penale, gli autori – a prescindere dal risarcimento dovuto alla persona danneggiata – si gioverebbero del vantaggio patrimoniale provocato dal fatto illecito”.

In questo senso, la sanzione pecuniaria civile assume le veci della sanzione penale in precedenza comminata ed è, al pari di questa, di carattere punitivo, volta cioè alla prevenzione generale di comportamenti lesivi di determinati interessi e alla repressione conseguente alla inosservanza del relativo precetto.

Tuttavia, non può non sottolinearsi come la differenza fondamentale di tale nuova sanzione civile rispetto a quella pecuniaria penale attenga alla circostanza che, in caso di inadempimento, la prima non è mai convertibile in una sanzione incidente sulla libertà personale, pur restando, peraltro, inconfondibili i tratti di un rigoroso carattere “personale” (non è, infatti, trasmissibile agli eredi).

7. In considerazione di quanto precede va affermato il seguente principio di diritto:

“La falsità commessa su un assegno bancario munito della clausola di non trasferibilità configura la fattispecie di cui all’art. 485 cod. pen, abrogato dal D.Lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, art. 1, comma 1, lett. a), e trasformato in illecito civile”.

Rimane, invece, la persistente rilevanza penale degli assegni trasmissibili mediante girata, senza che ciò determini alcuna ingiustificata disparità di trattamento, in ragione della rilevata peculiarità della odierna disciplina sulla clausola di trasmissibilità degli assegni, qualificata da particolari limiti quantitativi e dalla soddisfazione di specifiche ragioni dell’emittente, tali da rendere non irragionevole la scelta del legislatore di conservarne la rilevanza penale.

8. Nel caso di specie, dalla sentenza impugnata e dal ricorso risulta che l’assegno, tratto con firma apocrifa dal ricorrente per l’importo di Euro 10.000, reca la clausola di non trasferibilità, che, in conformità al D.Lgs. n. 231 del 2007, art. 49, commi 5 e 6 deve accedere a tutti gli assegni emessi per un importo superiore ad Euro 1.000,00.

Ne consegue che, trattandosi di falso in titolo non trasmissibile per girata, l’impugnata sentenza va annullata senza rinvio, limitatamente al fatto di cui al capo b), perchè il fatto non è previsto dalla legge come reato.

9. Il venir meno di uno dei termini essenziali del contenuto dell’accordo pone l’ulteriore questione se sia necessario annullare la sentenza nella sua interezza per consentire una nuova riformulazione dell’accordo sulla pena o se questo giudice possa espungere, dall’accordo complessivo, la parte di pena afferente al delitto abrogato, essendo questa perfettamente individuabile e non comportando la sua elisione una necessaria revisione dell’intero accordo (la pena per il delitto abolito non è, infatti, la pena base, ma costituisce solo una frazione dell’aumento per la continuazione).

Nella giurisprudenza di legittimità si registra sul tema un primo orientamento interpretativo (Sez. 2, n. 40259 del 14/07/2017, Ndiaye, Rv. 271035, Sez. 5, n. 33888 del 18/05/2017, Filisetti, Rv. 271631; Sez. 5, n. 41676 del 04/05/2016, Carletti, Rv. 268454; Sez. 5, n. 40282 del 14/04/2016, Montemurno, Rv. 268204; Sez. 1, n. 42407 del 19/10/2007, Melandro, Rv. 237969; Sez. 6, n. 356 del 15/12/1999 (dep. 2000), El Quaret, Rv. 215286) che ammette la cennata eliminazione, anche nel caso in cui la frazione di pena non sia stata precisata nell’accordo. Sul punto è stato affermato che, in tema di applicazione di pena su richiesta relativa a reati unificati dalla continuazione, a seguito di ricorso per cassazione, qualora per uno dei reati in continuazione sia sopraggiunta l’abolitio criminis e il giudice che ha pronunciato la sentenza non abbia determinato la relativa pena, allo scomputo di essa deve provvedere la stessa Corte di cassazione.

Da un lato, infatti, l’annullamento in parte qua della sentenza non comporta un effetto rescissorio dell’accordo intervenuto ex art. 444 cod. proc. pen., posto che, in via di principio, le parti, nel concordare sul trattamento sanzionatorio da applicare in relazione a determinate fattispecie, sono in grado di prospettarsi l’eventualità che alcune di queste possano, in itinere, venire meno, per effetto di cause di estinzione del reato o, appunto, di abolitio, e, dunque, presuntivamente accettano, per tale eventualità, che l’accordo sanzionatorio si concentri, previa detrazione della pena sine titulo, sulle imputazioni residue. Dall’altro, spetta al giudice che dichiara l’abolitio criminis procedere allo scomputo della pena riferibile al reato non più previsto come reato. A tale ultimo riguardo si è, infatti, osservato che non può essere investito di detta statuizione il giudice a quo, il quale si è limitato a prendere atto della pena concordata tra le parti, sicchè questa, anche se valutata congrua, non è stata dal medesimo determinata. Non ha nemmeno titolo per decidere in proposito il giudice della esecuzione, se non quando sia egli stesso a dichiarare l’abolitio criminis ex art. 673 cod. proc. pen. Ha invece pieno titolo a farlo il giudice che dichiara l’abolitio criminis, compresa la Corte di cassazione, non ostandovi la normale estraneità alle funzioni di legittimità delle valutazioni discrezionali connesse a siffatta materia; e ciò in quanto si tratta di potere del tutto marginale e, comunque, inquadrabile nella generale previsione dell’art. 619 cod. proc. pen., comma 3, che abilita appunto la Suprema Corte a rettificare la specie o la quantità della pena quando ciò derivi dall’applicazione “di legge più favorevole all’imputato, anche se sopravvenuta dopo la proposizione del ricorso, qualora non siano necessari nuovi accertamenti di fatto”.

9.1. L’opposto orientamento sostiene, invece, che, in tema di patteggiamento, la sopravvenuta abolitio criminis su alcune delle fattispecie che abbiano formato oggetto della sentenza di applicazione della pena su richiesta, comporta che tale patto debba essere sciolto non potendo superare indenne, nella sua globalità, il vaglio del giudice di legittimità (Sez. 3, n. 40522 del 30/04/2015, Carcano, Rv. 265499; Sez. 5, n. 9651 del 31/01/2011, Nembri, Rv. 249716; Sez. 1, n. 4592 del 26/09/1995, Abdraim, Rv. 202606): tanto in applicazione del principio di inscindibilità dell’accordo raggiunto fra le parti, che ne impone la rivisitazione per intero una volta che ne sia caduta una parte.

Anche tale orientamento condivide il principio di diritto secondo il quale, in tema di esecuzione, qualora, per effetto di abolitio criminis, sia parzialmente revocata la sentenza di patteggiamento per il reato base e per alcuni di quelli posti a fondamento del vincolo della continuazione che venga così ad essere risolto, rendendosi necessaria la nuova determinazione della sanzione per un residuo reato (già satellite), là dove l’originario aumento computato a titolo di continuazione non corrisponda – per genere, per specie o per quantità di pena alla sanzione prevista astrattamente dalla legge, la relativa quantificazione può essere operata direttamente dalla Corte di cassazione avendo riguardo alla massima riduzione consentita per le circostanze attenuanti ed alla diminuzione per l’eventuale rito alternativo richiesto dall’imputato (Sez. 1, n. 7857 del 09/01/2015, Ndiaye, Rv. 262465), con la conseguenza che il principio di intangibilità e inscindibilità del patteggiamento finisce per soffrire di una rilevante eccezione, perchè non solo tocca l’accordo raggiunto dalle parti, ma addirittura lo supera.

9.2. Si osserva che se l’anzidetto principio soffre di una così marcata eccezione non si comprende allora la ragione per la quale, abolito un reato, posto, dall’accordo fra le parti, in continuazione e fissata dalle stesse l’esatta porzione di pena ritenuta equa per tale violazione di legge, questa Corte non possa provvedere a quella eliminazione che sarebbe di sua certa competenza qualora ci si trovasse già nella fase di esecuzione della pena. Tanto più che si tratta di una decisione favorevole all’imputato, comportando una riduzione della pena da lui stesso accettata come conseguenza delle sue condotte di rilievo penale: una volta che una di tali condotte non ha più rilievo penale, non vi è motivo di ritenere che l’accordo raggiunto fra le parti sulle residue condotte sarebbe stato diverso.

10. In conclusione, la sentenza impugnata va annullata senza rinvio solo in riferimento al delitto di cui all’art. 485 cod. pen. abrogato, e la relativa pena, applicata per la continuazione e calcolata, prima della riduzione del terzo per la scelta del rito, nella misura di un mese e cinque giorni di reclusione ed Euro 200,00 di multa, va eliminata, con la conseguente rideterminazione della pena finale nella misura di due mesi e sette giorni di reclusione ed Euro 167,00 di multa.

P.Q.M.
Annulla senza rinvio l’impugnata sentenza limitatamente al reato di cui al capo b) perchè, qualificato ai sensi dell’art. 485 cod. pen., il fatto non è più previsto dalla legge come reato e, per l’effetto, riduce la pena a due mesi e sette giorni di reclusione ed Euro 167,00 di multa.

Così deciso in Roma, il 19 luglio 2018.

Depositato in Cancelleria il 10 settembre 2018

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