Reati edilizi, sanatoria: responsabilità direttore dei lavori e poteri del giudice penale
La Cassazione ha stabilito che “Poiché il provvedimento amministrativo (nella fattispecie, permesso di costruire in sanatoria) va ad incidere su un reato già commesso, il giudice penale non può sottrarsi al compito di controllare, pieno iure, la sussistenza dei presupposti per la sua emanazione e dei requisiti di forma e di sostanza richiesti dalla legge per il corretto esercizio del potere di rilascio” (Cass. Sez. III n. 46477 del 10 ottobre 2017 – Ud 13 lug 2017)
Inoltre, “il direttore dei lavori non risponde degli illeciti edilizi solo se presenta denuncia di detti illeciti ai competenti uffici dell’Amministrazione comunale e se rinuncia all’incarico osservando per entrambi gli adempimenti l’obbligo della forma scritta“.
RITENUTO IN FATTO
1. È impugnata la sentenza indicata in epigrafe con la quale la Corte di appello di Catanzaro ha confermato quella emessa dal tribunale di Crotone che aveva ritenuto i ricorrenti responsabili dei reati loro ascritti e, riconosciuto il vincolo della continuazione, li aveva condannati alla pena di mesi otto di arresto ed euro 21.000,00 di ammenda ciascuno per i reati previsti dagli articoli 110 del codice penale, 44, comma 1, lettere b), D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 perché, in concorso tra loro, V. M., in qualità di committente dei lavori e legale rappresentante della società Cubo Blu Costruzioni, C. B. e T. G., entrambi in qualità di direttori dei lavori e M.L., in qualità di titolare della omonima ditta individuale incaricata dello svolgimento dei lavori, realizzavano – in totale difformità rispetto al permesso di costruire n. 174/NC rilasciato dal Comune di Crotone in data 9 settembre 2012 ed al permesso di costruire in variante n. 62/NC rilasciato in data 4 maggio 2011, relativi alla realizzazione di un complesso residenziale denominato “Residence Diamante” consistente in tre corpi di fabbrica di complessivi venti unità abitative da destinare a civile abitazione – le opere abusive specificamente indicate nel capo di imputazione, tra cui un muro che divideva i corpi A e B dal corpo C, anziché realizzare un unico lotto come da permesso, nonché una tamponatura dell’ultimo piano destinato a copertura, costituto da tre blocchi per ciascun fabbricato, e conseguente realizzazione di n. 4 nuovi vani per una superficie complessiva pari a mq 35 per ciascun blocco. Condotte accertate in Crotone, il 24 giugno 2011, con permanenza.
2. Per l’annullamento dell’impugnata sentenza i ricorrenti, tramite il comune difensore, sollevano due motivi di impugnazione, qui enunciati, ai sensi dell’articolo 173 delle disposizioni di attuazione al codice di procedura penale, nei limiti strettamente necessari per la motivazione. 2.1. Con il primo, complesso, motivo, i ricorrenti deducono l’erronea applicazione della legge penale e di altre norme dalle quali dipende l’applicazione della legge penale, in riferimento all’articolo 47, comma 3, del codice penale e all’articolo 49 Legge Regione Calabria n. 12 del 2002 nonché il vizio di motivazione su punti decisivi per il giudizio (articolo 606, comma 1, lettere b) ed e), del codice di procedura penale). Premettono che ai ricorrenti erano stati contestati plurimi, presunti, abusi edilizi ma in realtà l’imputazione era stata ridimensionata dal tribunale, che aveva ritenuto accertati ed integrati gli abusi solo con riferimento a due punti descritti nell’imputazione, e cioè alla costruzione di “un muro che divideva i corpi di fabbrica A e 8 dal corpo C, che avrebbe costituito una difformità rispetto all’originario progetto che prevedeva la costruzione di un unico lotto”, nonché con riferimento alla “tamponatura dell’ultimo piano destinato a copertura, costituito da tre blocchi per ciascun fabbricato, e conseguente realizzazione di n. quattro nuovi vani per una superficie complessiva pari a mq 85 per ciascun blocco”.
Dopo aver riportato nel ricorso, i titoli abilitativi ottenuti per l’esecuzione dei lavori nonché i permessi in sanatoria e in variante, i ricorrenti osservano che il Giudice di secondo grado aveva ritenuto che la relazione tecnica allegata alla richiesta di variante in sanatoria del 2 marzo 2011, non contenesse alcuna menzione relativa alla tamponatura dell’ultimo piano destinato a copertura, tant’è che la Corte di appello aveva acquisito all’udienza del 22 settembre 2015, in accoglimento delle richieste difensive contenute nell’appello, la relazione allegata alla predetta richiesta di variante, dalla cui lettura i ricorrenti lamentano in maniera chiara il travisamento della prova operato dalla Corte calabrese, emergente da tale specifico atto processuale, entrato nel dominio conoscitivo del Giudice di secondo grado, Ma totalmente ignorato. Il giudice d’appello avrebbe dunque dovuto ritenere, sulla base del richiamato atto, accertato che la richiesta di variante in sanatoria del 11 marzo 2011 contemplava la tamponatura perimetrale dei locali tecnici dell’ultimo piano, e che il solaio era già stato considerato “pieno”. In ogni caso, sempre con riferimento ai sottotetti, la Corte territoriale non avrebbe considerato che, in data 31 luglio 2012, Vito Menga, nella sua qualità di committente, inviava al Comune di Crotone una segnalazione certificata di inizio attività per il recupero dei sottotetti a fini abitativi ai sensi dell’art. 18 della Legge Regionale n. 49 della 2002 (in atti).
Dopo la S.c.i.a., seguiva il termine di trenta giorni, decorso il quale, nel silenzio del Comune di Crotone, l’ampliamento si riteneva assentito. La Corte del merito, sul punto, ha ritenuto che la richiamata legge regionale disciplinasse la tutela ed il recupero del patrimonio edilizio ed urbanistico, regolando esclusivamente gli interventi di recupero del patrimonio edilizio già esistente al momento dell’entrata in vigore della normativa in questione.
Obiettano i ricorrenti che l’architetto Dominijanni, escusso nel dibattimento dì primo grado, aveva però chiarito che il Comune di Crotone aveva per ben dieci anni interpretato la norma nel senso di poterla applicare anche ai manufatti in corso d’opera, così come d’altronde avevano fatto gli uffici urbanistici di molti altri comuni della Calabria, fino a quando, in data 10 agosto 2012, è intervenuta la legge regionale n. 35 del 2012, che, all’articolo 29, ha chiarito che la legge regionale n. 19 del 2002 poteva avere applicazione solo in riferimento ai manufatti preesistenti all’anno 2002.
Il Giudice di secondo grado, al pari di quello di primo grado, ha ritenuto invece che il testo della legge n. 19 del 2002 fosse chiaro ab origine, con conseguente impossibilità di applicare l’articolo 49 della legge n. 19 del 2002 al caso di specie, e conseguente integrazione della fattispecie contravvenzionale in contestazione. Ritengono, in conclusione, che la tesi sostenuta in sentenza sarebbe apodittica essendo stata emanata, a distanza di dieci anni dalla sua promulgazione, una nuova legge regionale che chiarisse come utilizzare le facoltà concesse dall’articolo 49 della legge n. 19 del 2002, proprio a causa della sua ambiguità lessicale, cosicché doveva ritenersi lampante che, a differenza dì quanto sostenuto nella sentenza impugnata, il testo legislativo non era così sufficientemente limpido come avevano invece ritenuto i giudici del merito, ignorando le prospettazioni difensive, sulle quali i ricorrenti si diffondono, afferenti all’errore su una legge diversa da quella penale incriminatrice, che aveva inevitabilmente cagionato un errore sul fatto costituente reato, ai sensi dell’art. 47, comma 3, del codice penale.
2.2. Con il secondo motivo i ricorrenti lamentano il difetto di motivazione (articolo 606, comma 1, lettera e), del codice di procedura penale) su punti decisivi per il giudizio sul rilievo che, quanto all’abuso edilizio consistito nell’elevazione di un muro, dalla lettura della relazione descrittiva allegata alla richiesta di variante in sanatoria del 9 agosto 2011, acquisita dalla Corte territoriale, emergeva che il muro era stato realizzato perché, nell’atto del movimento terra per il posizionamento dei fabbricati, ci si rese conto che il dislivello non avrebbe permesso il corretto accesso al lotto, cosicché il muro inizialmente divideva effettivamente i due lotti, ma prima della chiusura dei lavori sarebbero stati posizionati, come emergeva dalla predetta relazione, dei percorsi di accesso verticali ossia delle scale atte a collegare i predetti lotti.
Da ciò i ricorrenti deducono come fosse chiaro ed evidente che, nell’istanza di variante in sanatoria, si facesse esplicita menzione della presenza del muro di contenimento cosicché la Corte di appello, pur avendo acquisito gli atti di riferimento, ne avrebbe completamente ignorato il contenuto, così incorrendo nel travisamento del fatto, censurabile come vizio di motivazione emergente da atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame.
Osservano infine i ricorrenti che il successivo permesso a costruire 2/NC del 5 gennaio 2012 era stato infatti emesso a seguito di attenta valutazione dei progetti e con una piena rappresentazione e cognizione, in capo alla P.A. procedente, della presenza del muro divisori che, pur separando i due lotti, in realtà non li divideva per la presenza della scala di raccordo, così lasciando inalterata l’unicità strutturale del residence, costituito da tre unità immobiliari integrate e tra loro comunicanti.
La Corte d’Appello di Catanzaro avrebbe allora erroneamente affermato in sentenza che le rampe di raccordo non vennero realizzate, tanto sulla base dell’accertamento della p.g. inquirente risalente al 22 giugno 2011, mentre la previsione della creazione di scale di raccordo risaliva al 9 agosto 2011, sicché non esisterebbe alcun atto processuale da cui evincere che le rampe di raccordo non furono eseguite, mentre invece le stesse vennero ritualmente realizzate in esecuzione alla variante in sanatoria concessa in data 5 gennaio 2012.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I ricorsi sono inammissibili per manifesta infondatezza e, sotto plurimi aspetti, per aspecificità e perché non consentiti.
2. I motivi di impugnazione, essendo tra loro strettamente collegati, possono essere congiuntamente esaminati.
2.1. E’ utile premettere come – con accertamento di fatto adeguatamente e logicamente motivato e, pertanto, sottratto al sindacato di legittimità – la Corte di appello, secondo quanto emerge dal testo del provvedimento impugnato, abbia rilevato che, dalla relazione allegata alla richiesta di variante in corso d’opera presentata al Comune di Crotone in data 2 marzo 2011, non risultavano le modifiche richieste dai committenti, essendo stata solo indicata una differenza relativa alla superficie dei box garage (mq 115,50 rispetto agli originari 94,5).
Le dimensioni dei box, riportate nella relazione, non giustificavano, tuttavia, la modifica richiesta, essendo risultata, dai calcoli, invariata la superficie rispetto a quella precedentemente assentita. In realtà, la variante doveva riguardare il lastrico solare (deposizione in dibattimento del teste Dominijanni), nel senso che si voleva trasformare l’intelaiatura per l’installazione degli impianti fotovoltaici in solaio a copertura piana, con conseguente realizzazione di volumi tecnici sottostanti.
Nella relazione tecnica allegata alla richiesta, tuttavia, non vi era alcun riferimento alla creazione di tali volumi tecnici sui fabbricati A e B. Di conseguenza, il Comune di Crotone rilasciava un nuovo permesso di costruire in variante senza alcun riferimento ad una specifica modifica al progetto originario e, soprattutto, senza alcun riferimento alla creazione di nuovi voltimi tecnici.
Dopo qualche giorno dal rilascio del permesso in variante, con nota del 16 maggio 2011, í direttori dei lavori diffidavano formalmente la ditta esecutrice dei lavori ed il proprietario a ripristinare le opere, come da progetto in variante, rilevando la difformità di alcune lavorazioni.
In data 22 giugno 2011, a seguito di sopralluogo del tecnico comunale, su segnalazione della Polizia Municipale, infatti, venivano riscontrate diverse difformità dall’originario progetto e da quello in variante, specificamente elencate nel capo di imputazione, tra cui, in particolare, la creazione di un imponente muro di recinzione, con cancellata sovrastante, che divideva i fabbricati A e B dal fabbricato C, previsti in progetto all’interno di un unico lotto, e la realizzazione, sui lastrici solari dei fabbricati A e B di sei manufatti composti da quattro vani ciascuno, con aperture di porte e finestre, di circa mq 85 ciascuna, per una superficie complessiva di mq 505,40.
2.2. Alla stregua di ciò, la Corte del merito ha ritenuto di condividere la decisione del primo giudice che aveva escluso l’effetto estintivo del permesso di costruire in sanatoria rilasciato dal Comune di Crotone in data 5 gennaio 2012 rispetto a tali difformità. Infatti, quanto al muro di recinzione, il provvedimento in sanatoria prevedeva la creazione di un muro di sostegno che avrebbe avuto la funzione di contenere il dislivello di quota esistente tra i due lotti di terreno ospitanti, rispettivamente, i fabbricati A e B e il fabbricato C.
Nella relazione e negli elaborati progettuali prodotti dalla difesa, venne indicato tale muro, che doveva avere la sola funzione di contenere il dislivello e mettere in comunicazione i due lotti, mediante apposite rampe di scale.
Nella realtà, invece, era stato costruito un imponente muro di recinzione, con cancellata sovrastante, senza rampe di collegamento, al fine di separare i due lotti, che avevano acquisito, in tal modo, un’autonomia funzionale non prevista nel progetto originario e neppure da quello in variante.
Da ciò il corretto convincimento che tale genere di opere fosse soggetto al regime concessorio e, nel pervenire a tale conclusione, la Corte territoriale si è attenuta al principio affermato da questa Sezione secondo il quale, in tema di reati edilizi, la realizzazione di un muro di recinzione necessita del previo rilascio del permesso a costruire nel caso in cui, avuto riguardo alla sua struttura e all’estensione dell’area relativa, lo stesso sia tale da modificare l’assetto urbanistico del territorio, così rientrando nel novero degli “interventi di nuova costruzione” di cui all’art. 3, lett. e), del d.P.R. n. 380 del 2001 (Sez. 3, n. 52040 del 11/11/2014, Langella, Rv. 261521), vertendosi, nel caso in esame, in un’ipotesi di totale difformità dal progetto approvato, di cui non si era fatta alcuna menzione nella richiesta di variante in sanatoria depositata presso gli uffici comunali (cfr. deposizione del teste Dominijanni).
2.3. Quanto alle altre violazioni riscontrate, la Corte di appello, con specifico riferimento alla realizzazione di sei appartamenti sui lastrici solari dei fabbricati A e B, in luogo dei locali tecnici indicati nel progetto in variante, ha ritenuto di escludere l’effetto estintivo delle contravvenzioni, condividendo anche, sul punto, le motivazioni del tribunale, il quale aveva correttamente sottolineato che, con il permesso in sanatoria, non potevano essere assentiti con il nomen di “volumi tecnici” interventi che macroscopicamente non potevano minimamente rientrare in tale nozione.
I Giudici del merito hanno infatti evidenziato che, nella relazione tecnico urbanistica allegata all’istanza di permesso in sanatoria, i direttori dei lavori, con riguardo ai sei appartamenti realizzati sui rispettivi lastrici solari dei fabbricati A e B, avevano fatto riferimento a meri “locali tecnici” cosicché il Comune, rilasciando il permesso in sanatoria, avrebbe accolto tale valutazione, senza obiettare alcunché sul punto.
Gli strumenti urbanistici, al di là della loro controversa natura giuridica, sono tuttavia atti a contenuto normativo ed è pertanto esatto affermare, come hanno correttamente ragionato i Giudici del merito, che essi perseguono la funzione specifica di vincolare la discrezionalità della pubblica amministrazione al rilascio dei provvedimenti concessori, con la conseguenza che il pubblico funzionario, in virtù dei principi (costituzionali) di imparzialità di buon andamento della pubblica amministrazione, ha il dovere di interpretare ragionevolmente e rigorosamente gli strumenti urbanistici soprattutto quando si tratta di provvedimenti in sanatoria ossia successivi ad abusi edilizi.
Più specificamente in ordine alla qualificazione di un vano come “volume tecnico”, è stato affermato dalla giurisprudenza di legittimità che integra il reato edilizio previsto dall’art. 44, comma primo, lett. b), d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, la realizzazione, senza permesso di costruire, di un volume tecnico di rilevante ingombro destinato ad incidere oggettivamente in modo significativo sui luoghi esterni (Sez. 3, n. 7217 del 17/11/2010, dep. 2011, La Terra, Rv. 249529), tanto sul rilievo che “sono volumi tecnici quelli strettamente necessari a contenere ed a consentire la sistemazione di quelle parti degli impianti tecnici, aventi un rapporto di strumentalità necessaria con l’utilizzo della costruzione (quali: serbatoi idrici, extracorsa degli ascensori, vani di espansione dell’impianto termico, canne fumarie e di ventilazione, vano scala al di sopra della linea di gronda età), che non possono, per esigenze tecniche di funzionalità degli impianti stessi, trovare allocazione entro il corpo dell’edificio realizzabile nei limiti imposti dalle norme urbanistiche. I volumi tecnici non rientrano nel conteggio dell’indice edificatorio, in quanto non sono generatori del cd. “carico urbanistico” e la loro realizzazione è finalizzata a migliorare la funzionalità e la salubrità delle costruzioni (…) Per l’identificazione della nozione di “volume tecnico”, assumono valore tre ordini di parametri, il primo, positivo, di tipo funzionale, relativo al rapporto di strumentalità necessaria del manufatto con l’utilizzo della costruzione alla quale si connette; il secondo ed il terzo, negativi, ricollegati da un lato all’impossibilità di soluzioni progettuali diverse (nel senso che tali costruzioni non devono potere essere ubicate all’interno della parte abitativa) e dall’altro lato ad un rapporto di necessaria proporzionalità tra tali volumi e le esigenze effettivamente presenti.
Ne deriva che la nozione in esame può essere applicata solo alle opere edilizie completamente prive di una propria autonomia funzionale, anche potenziale; ed è invece esclusa rispetto a locali, in specie laddove di ingombro rilevante, oggettivamente incidenti in modo significativo sui luoghi esterni” (Sez. 3, n. 7217 del 17/11/2010, dep. 2011, cit., in motiv.).
Con accertamento di fatto, insindacabile in sede di controllo di legittimità in quanto adeguatamente motivato e privo di vizi logici e giuridici, il Giudici del merito hanno stabilito come, nel caso di specie, non ricorresse alcuna delle condizioni richieste perché si potesse qualificare l’intervento in questione come “volume tecnico”, trattandosi in realtà di manufatti non privi di autonomia funzionale (ma appunto idonei ad investire diversa ben più rilevante, anche economicamente, destinazione urbanistica); manifestamente sproporzionati in eccesso ad ospitare meri impianti tecnici; di ingombro rilevante ed incidenti in modo significativo sui luoghi esterni.
E’ di tutta evidenza allora come, in siffatti casi, il giudice penale abbia il potere-dovere di verificare, in via incidentale, la legittimità del permesso in sanatoria e di accertare se l’opera sia conforme alla normativa urbanistica, trattandosi di un provvedimento che costituisce il presupposto dell’illecito penale, senza necessità di procedere alla disapplicazione del medesimo (Sez. 3, 22/04/2008 n. 26144, Papa, Rv. 240728), essendo chiaro che il giudice, accertando l’esistenza di profili di illegittimità sostanziale del titolo abilitativo, non pone in essere la procedura di disapplicazione riconducibile all’art. 5 della legge 20 marzo 1865 n. 2248, allegato E, atteso che viene operata una identificazione in concreto della fattispecie con riferimento all’oggetto della tutela da identificarsi nella salvaguardia degli usi pubblici e sociali del territorio regolati dagli strumenti urbanistici (Sez. 3, n. 21487 del 21/03/2006, Tantillo, Rv. 234469).
Ne deriva che il conseguimento di un permesso in sanatoria non preclude l’esercizio delle competenze del giudice ordinario, avendo la Corte, anche nella sua più autorevole composizione, chiarito che il giudice penale, nel valutare la sussistenza o meno della liceità di un intervento edilizio, deve verificarne la conformità a tutti i parametri di legalità fissati dalla legge, dai regolamenti edilizi, dagli strumenti urbanistici e dalla concessione edificatoria. Anche nei casi in cui, nella fattispecie di reato sia previsto un atto amministrativo ovvero l’autorizzazione del comportamento del privato da parte di un organo pubblico, il giudice penale non deve limitarsi a verificare l’esistenza ontologica dell’atto o provvedimento amministrativo, ma deve verificare l’integrazione o meno della fattispecie penale, in vista dell’interesse sostanziale che tale fattispecie assume a tutela (nella specie, l’interesse sostanziale alla tutela del territorio), nella quale gli elementi di natura extra-penale convergono organicamente, assumendo un significato descrittivo. E’ la stessa descrizione normativa del reato che impone al giudice un riscontro diretto di tutti gli elementi che concorrono a determinare la condotta criminosa, ivi compreso l’atto amministrativo (Sez. U, n. 11635 del 12/11/1993, Borgia, in motiv., nonché Rv. 195358-59).
Su questa scia, occorre ancora una volta ribadire che, in siffatti casi, il sindacato del giudice penale deve investire l’accertamento incidentale allo stato degli atti perché la causa di estinzione del reato per violazioni edilizie (in conseguenza del rilascio del permesso di costruire in sanatoria) o la ritenuta illiceità penale dell’intervento, siccome si risolve in un accertamento dell’inesistenza del danno urbanistico in quanto si fonda sulla conformità delle opere abusive alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione sia in quello della richiesta, determina la mancanza ex tunc dell’antigiuridicità sostanziale del fatto reato ( v. Corte Cost. sent. 30 aprile 1999 n. 149). Ma proprio perché il provvedimento amministrativo va ad incidere su un reato già commesso, il giudice penale non può sottrarsi al compito di controllare, pieno iure, la sussistenza dei presupposti per la sua emanazione e dei requisiti di forma e di sostanza richiesti dalla legge per il corretto esercizio del potere di rilascio. Ne consegue la correttezza giuridica dei principi affermati nella sentenza impugnata perché il permesso di costruire in sanatoria rilasciato dal Comune di Crotone in favore del Menga non presentava i richiesti requisiti di legittimità formale e sostanziale sia per le ragiioni in precedenza indicate e sia perché già con la concessione originaria era stata raggiunta la volumetria massima edificabile, pari a mc 4.612,5, relativi ad una superficie lorda di pavimento complessiva di mq 1,537,5.
Da ciò la Corte di appello ha fatto logicamente derivare la piena consapevolezza di avere realizzato con i sei appartamenti costruiti sui lastrici solari una volumetria superiore a quella consentita, non sanabile neppure con un successivo permesso di costruire. Ed infatti, i direttori dei lavori, subito dopo il rilascio del permesso in sanatoria, rassegnarono le loro dimissioni, adducendo generici motivi personali, non imputabili alla committenza e siffatta iniziativa è stata ritenuta tale da non escludere la loro responsabilità per gli abusi edilizi realizzati, sul rilievo che il direttore dei lavori è penalmente responsabile, salva l’ipotesi d’esonero prevista dall’art. 29 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, per l’attività edificatoria non conforme alle prescrizioni del permesso di costruire in caso d’irregolare vigilanza sull’esecuzione delle opere edilizie, in quanto questi deve sovrintendere con continuità alle opere della cui esecuzione ha assunto la responsabilità tecnica.
La giurisprudenza di legittimità è ferma, infatti, nel ritenere che il direttore dei lavori non risponde degli illeciti edilizi solo se presenta denuncia di detti illeciti ai competenti uffici dell’Amministrazione comunale e se rinuncia all’incarico osservando per entrambi gli adempimenti l’obbligo della forma scritta. Nel caso di specie, gli odierni imputati non hanno segnalato le difformità ai competenti organi comunali, ma si sono limitati a richiamare il committente, salvo dimettersi dall’incarico dopo avere avuto il rilascio del permesso di costruire in sanatoria da loro stessi richiesto.
Correttamente infine, i reati in questione non sono stati ritenutisi estinti neppure a seguito del rilascio della SCIA del 31-7-2012, richiesta dal Menga per mezzo di altro direttore dei lavori, trattandosi di opere che, per le loro dimensioni e per la destinazione funzionale (veri e propri appartamenti per uso abitativo e non locali tecnici), devono essere considerati come interventi di nuova costruzione, soggetti al rilascio del permesso di costruire. Né il rilascio della SCIA poteva trovare fondamento nell’art. 49 della legge regionale n. 19 del 2002 che riguarda la tutela ed il recupero del patrimonio edilizio ed urbanistico, trattandosi, senza ombra di dubbio, di una disciplina che regola soltanto gli interventi di recupero del patrimonio edilizio già esistente al momento dell’entrata in vigore della normativa in questione e non certo le nuove costruzioni.
4. Al cospetto di ciò, le obiezioni dei ricorrenti si connotano, oltre che per la loro manifesta infondatezza, anche per la portata tipicamente fattuale, laddove essi, nel censurare la congruità della motivazione, hanno introdotto censure di merito che non possono rientrare nell’orizzonte cognitivo del giudice di legittimità, non potendosi devolvere alla Corte di cassazione doglianze con le quali, deducendosi apparentemente una carenza logica od argomentativa della decisione impugnata, si pretende, invece, una rivisitazione del giudizio valutativo sul materiale probatorio, operazione non consentita nel giudizio di cassazione all’interno del quale non è possibile innestare censure che implicano la soluzione di questioni fattuali, adeguatamente e logicamente risolte, come nel caso in esame, dal giudice del merito.
5. Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che i ricorsi debbano essere dichiarati inammissibili, con conseguente onere per i ricorrenti, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che i ricorsi siano stati presentati senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che ciascun ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2000 in favore della cassa delle ammende.
Così deciso il 13/07/2017
Lascia un commento